Perché non fare figli è un problema per l’Italia e come uscirne.
Di Luca Cifoni e Diodato Pirone, edito da Rubbettino.
La recensione di Giuliano Cazzola
La questione demografica comincia a trovare lo spazio che merita nell’elenco delle emergenze. Il duplice effetto della denatalità e dell’invecchiamento della popolazione sta producendo e comporterà sempre più conseguenze rilevanti, sui fondamentali dello sviluppo di una società, sulla cultura e sui sistemi di welfare; ma pure sul mercato del lavoro, per un motivo piuttosto banale: le coorti che devono subentrare a quelle che escono non potranno farlo, se non in parte, per il semplice fatto che quelle persone non sono mai nate. Affronta questi temi un recente saggio ‘’La trappola delle culle. Perché non fare figli è un problema per l’Italia e come uscirne’’ scritto da due giornalisti e amici, Luca Cifoni e Diodato Pirone, edito da Rubbettino. Gli autori impostano la loro narrazione su alcuni dati e date che, nel prosieguo della lettura si riveleranno cruciali. Il primo dato è un pugno nello stomaco: per ogni 100 nati sono presenti 170 settantenni. Il secondo è una data: il 1964 quando il tasso di natalità – con un milione di nuovi nati – si piazzò al 20 per mille. Negli anni successivi è iniziata la discesa, prima in modo lento, poi accelerato, con periodi di recupero, grazie soprattutto all’immigrazione, seguiti da nuovi crolli; fino ad arrivare nel 2021 al di sotto dei 400mila ( e 7 per mille). Il saggio dà conto con cura dei fattori esterni che determinano questi andamenti. Negli ultimi anni, soprattutto hanno pesato eventi come la crisi economica del 2008 e la pandemia. Sullo sfondo si colloca anche la mancanza di una politica a favore delle famiglie e della natalità (che è stata volutamente sacrificata, con vere e proprie sottrazione di risorse, all’idolatria nazionale per le pensioni), come pure le incerte prospettive della condizione dei giovani. Ma una lettura prevalentemente ‘’economicista’’ del declino demografico dell’Italia non andrebbe al cuore del problema. Esistono aspetti che rendono il processo di carattere strutturale. Innanzi tutto, il crollo della popolazione giovanile è la conseguenza di quanto è avvenuto nelle coorti precedenti, anch’esse meno numerose e di conseguenza meno prolifiche. Si determina cioè una corsa al ribasso, scandita da un dato naturale del quale tutte le diavolerie scientifiche non sono riuscite a fare a meno: il tasso di fecondità della donna, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni. In questa fascia di popolazione, le donne italiane – sottolinea il saggio – sono sempre meno numerose: da un lato, le cosiddette baby boomers (ovvero le donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta) stanno uscendo dalla fase riproduttiva (o si stanno avviando a concluderla); dall’altro, le generazioni più giovani sono sempre meno consistenti. Queste ultime scontano, infatti, l’effetto del cosiddetto baby-bust, ovvero la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995. Al 1° gennaio 2019 le donne residenti in Italia tra 15 e 29 anni erano poco più della metà di quelle tra 30 e 49 anni. Rispetto al 2008 le donne tra i 15 e i 49 anni sono oltre un milione in meno. Un minore numero di donne in età feconda (anche in una teorica ipotesi di fecondità costante) comporta, in assenza di variazioni, meno nascite. Questo fattore è alla base di circa il 67% della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2018. In poche parole, si sta spezzando la filiera della riproduzione sociale. Fino ad un certo punto vi è stata la compensazione degli immigrati, in generale in giovane età e orientati a prolificare. Negli ultimi anni – per tanti comprensibili motivi – i flussi hanno avuto dei problemi e le famiglie di stranieri si sono orientate a comportamenti mutuati da quelle italiane. Tuttavia – come fanno notare i demografi e gli stessi autori – l’immigrazione (che non costituisce una risorsa infinita) è un contributo fondamentale per correggere gli squilibri più critici del depauperamento della popolazione italiana. Peraltro se non si organizza e programma secondo il fabbisogno l’immigrazione, si è condannati a subirla. ‘’Quella migratoria – scrivono gli autori – è l’unica variabile demografica che in tempi relativamente rapidi può modificare le tendenze in atto, mentre i cambiamenti delle scelte riproduttive dell’intera popolazione richiedono un orizzonte più esteso’’. A conferma del fabbisogno di maggiore immigrazione (idonea, razionalizzata e organizzata) gli autori mettono in evidenza gli effetti negativi determinati dal rallentamento dei flussi nel corso degli anni più recenti. Così Cifoni e Pirone individuano una data, il 2014, quando il trend di tenuta dei saldi immigratori negli anni precedenti, si è invertito, proprio in conseguenza di un cambio di passo dei flussi di immigrazione. ‘’Il divario si è ampliato – scrivono gli autori – fino a quando, esattamente nel 2014, l’altro protagonista della demografia ‘’il saldo migratorio’’ non ce l’ha più fatta a tamponare la falla’’. Gli immigranti – in altre parole – non sono riusciti a pareggiare il deficit tra nascite e decessi, mentre nello stesso tempo cominciava a verificarsi l’emigrazione di giovani italiani (il 41% laureati) in cerca di lavoro in altri Paesi. Lo storico divario dell’Italia è stato confermato anche in questo frangente; se la popolazione residente dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2021 è diminuita complessivamente di oltre il 2%, nelle regioni meridionali è calata più del 4% che è salito al 4,7% nell’insieme delle Isole. Traducendo queste significative percentuali in numeri assoluti, dal 2014 al 2021 sono ‘’svaniti nel nulla’’ 1,4 milioni di residenti; di questi il Mezzogiorno ne ha persi 900mila.